Cobra Kai
Strike first. Strike hard. No mercy
Cobra Kai mi ha sorpreso sin dall’inizio.
Creata per You Tube Premium nel 2018, la serie, almeno prima che uscisse, aveva tutte le carte in regola per essere un flop (almeno secondo me).
Ambientata 34 anni dopo il film Karate Kid (John G. Avildsen, 1984; lo stesso regista di Rocky), Cobra Kai segue le vicende del villain Johnny Lawrence: da figlio dell’aristocrazia di All Valley Johnny è diventato un uomo di mezza età che vive alla giornata. Mezzo alcolizzato e mezzo depresso, passa da un lavoro all’altro, rimpiangendo i fasti di un’età giovanile ormai finita.
Al contempo, il suo storico avversario – nonché protagonista della precedente trilogia di film (Daniel LaRusso) – è diventato invece un imprenditore affermato di saloni automobilistici. Sicuro di sé, benestante, con una bella casa e una famiglia accogliente.
Insomma, ne sono successe di cose, da quando li abbiamo lasciati sul tatami, un trentennio fa.
La voglia di rivalsa porterà Johnny a riaprire, dopo tanto tempo, le porte del Cobra Kai, per insegnare ai giovani la Legge del Pugno: colpire per primi, colpire forte, nessuna pietà.
Daniel, dal canto suo, non potendo consentire che quella scuola del male spopoli nella valle, decide di impedirne l’ascesa, aprendo a sua volta il Miyagi Do Karate.
Tutto questo porterà a nuova rivalità tra i due storici avversari; quest’odio atavico, però, andrà a riverberarsi sulle rispettive scuole di arti marziali, e anche sulle rispettive famiglie, generando una specie di guerriglia urbana che sconvolgerà la vita di All Valley.
Tornando all’inizio del discorso, c’era tutte le carte in regola affinché Cobra Kai fosse un prodotto mediocre, costruito sul vecchio protagonismo di attori dimenticati e ormai stanchi, e sull’effetto amarcord tipico di questi spin-off. Non solo. Similmente ai film che hanno preceduto la serie, anche Cobra Kai poteva sembrare una parodia delle arti marziali (e in parte lo è, ma in senso buono): un prodotto sul karate in cui nessuno sa nulla, davvero, di karate; alcuni combattimenti sono imbarazzanti. Salvo qualche vero karateka, gli attori si reggono a stento in piedi.
Nonostante le premesse, posso dirlo: Cobra Kai è una bella serie. Non a caso, in virtù del riscontro ottenuto, è stata acquistata da Netflix a partire dal 2020.
In ordine sparso.
1) Cobra Kai è una bella serie perché non interessa a nessuno che nessuno sappia davvero combattere; non interessa a nessuno che personaggi vecchi siano stati riesumati per dare linfa al nuovo corso. La sospensione dell’incredulità, qui, è una sorta di premessa taciuta, di accordo silenzioso tra gli attori e lo spettatore: lo sappiamo che gli attori non sono veri fighter, ma ce ne facciamo una ragione. Il senso della produzione è un altro, e ha poco a che vedere con il karate e con lo scontro fisico in generale.
2) Cobra Kai è una bella serie perché non si prende mai davvero sul serio; al contempo, è dannatamente seria. Sa essere ironica e soprattutto auto-ironica; certe scene mi hanno fatto ridere fino alle lacrime (a partire dalla prima stagione e per finire con la quarta), ma alla fine, durante il torneo, eravamo tutti sul divano a tifare come pazzi.
3) Cobra Kai è una bella serie perché usa il karate come pretesto per raccontare altro. I temi affrontati sono tanti e riguardano la nostra quotidianità: l’approccio alla vita; le aspettative dei genitori e del nostro ambiente sociale; il bullismo, la vendetta, l’accettazione di sé e l’accettazione da parte del proprio ambiente; il transito generazionale che va da genitore a figlio, passando attraverso amori, carezze, incomprensioni, schiaffi, delusioni. Perdite.
4) Cobra Kai è una bella serie perché, in fondo, racconta la storia di padri.
Padri assenti e padri naturali, padri morali, padri spirituali, padri surrogati. Tutte le dinamiche, direttamente o indirettamente, affrontano il concetto di paternità.
I personaggi principali e qualcuno dei secondari sono uniti da un denominatore comune: non hanno avuto un vero padre. E lo hanno cercato in qualcun altro; a volte sono stati arricchiti, altre volte delusi, altre ancora rifiutati. Tutti i padri di questa serie sono messi in discussione, e questo è un filo comune, sottilissimo, che lega ogni storia, ogni conflitto, ogni lotta.
Non ha grandissime pretese, Cobra Kai, ed è per questo che sorprende.
Fa ridere ma fa anche piangere, ed entrambe le cose sono affrontate con l’apparente leggerezza della commedia d’intrattenimento.
A ben vedere, nemmeno il comparto attoriale brilla, salvo qualche eccezione, ma nemmeno questo ci interessa.
Alla fine saremo tutti sul divano a tifare come allo stadio, sperando che un calcio ben assestato possa ristabilire la giustizia, il bene, l’amore di un padre mancato.