Million Dollar Baby
(Tra il nulla e l’addio…)
Oggi celebriamo l’uscita nelle sale americane (15.12.2004) di “Million Dollar Baby”.
Il film, diretto e prodotto da Clint Eastwood, è tratto dal libro “Rope Burns: Stories from the Corner” di F. X. Toole, pugile e allenatore statunitense.
Il film compie un’operazione miracolosa: prende alcuni racconti presenti nella raccolta di Toole e li mette insieme, traendone un film capolavoro, che fece nel 2005 incetta di premi internazionali, tra cui quattro Oscar (miglior film, miglior regia, miglior attrice a Hilary Swank, miglior attore a Morgan Freeman).
Alcune considerazioni
1) Il film, capolavoro indiscusso di Eastwood, non parla di una storia, ma di più storie: al di sotto della trama principale, vi sono varie sottotrame, microcosmi e microstorie di bellissima umanità, che ci restituiscono un quadro variegato e complesso sull’esistenza: il rapporto mai risolto di Frankie Dunn con la figlia (e con la religione); la vita di Scrapp, ex pugile cieco, arrivato a 109 incontri: disputerà il match 110 durante il film, salvando Danger da un pestaggio mortificante; Danger, aspirante pugile semi-ritardato, che tornerà ad allenarsi dopo essere stato massacrato; e altre ancora.
2) “Million dollar baby” è ricco e multilivello, come ogni vero capolavoro che si rispetti. La storia è tante cose, forse troppe; è una dichiarazione d’amore verso il pugilato e il sacrificio; è un affresco umano sulla colpa e sul perdono; è un romanzo sulla famiglia, e sul rapporto padre-figlia; è un’opera lirica su madri mancate e su padri sostitutivi; è un canto liberatorio verso l’eutanasia.
3) Il film, lungi dal girare attorno ai cliché, è un inno alla vita, una poesia minimalista sulla complessità dell’esistenza: c’è la forza di volontà, in questo film, ma siamo ben lontani dai concetti di self-made tipici di Rocky o di Cinderella Man o di altri film sul pugilato. Accanto alla dedizione cieca verso “un sogno che nessuno vede tranne te”, c’è anche l’odore triste delle periferie, delle classi sociali, delle famiglie disfunzionali. C’è la rassegnazione dignitosa verso le ingiustizie, l’incapacità di ribellarsi alle atrocità della vita; c’è la morte come unica via per la liberazione e per l’assoluzione.
4) Le emozioni facili, quelle gratuite e scontate, vengono dribblate attraverso una regia raffinata, sapiente, attenta. Come sempre, non abbiamo un climax, ma un anti-climax: non c’è la musica d’orchestra ad accompagnare il finale triste e romantico, ma ci sono il silenzio e un’immagine sfocata: lo spettatore non viene catapultato nell’epilogo drammatico, ma vi scivola dentro, come per caso, quasi controvoglia.
5) In narrativa, si parla di “elisir” per identificare lo scopo finale al quale tende l’eroe: il suo obiettivo, la sua conquista. Di solito, nel viaggio dell’eroe, ogni storia si conclude con un “ritorno con l’elisir”: il protagonista porta a casa il risultato. Ciò non significa che torni in vittoria, per carità: potrebbe anche morire, ma Million Dollar Baby sembra a latere, rispetto a questo concetto: qual è il vero elisir di questa storia? E chi è l’eroe, Maggie o Frankie? E l’elisir viene portato a casa o no? Abbiamo quindi un finale triste vero o falso?
Come sempre, Eastwood applica la sua cifra essenziale e mai stucchevole a una storia che, fisiologicamente, si sarebbe prestata a una valanga di cliché e luoghi comuni: il regista li evita tutti, consegnandoci un affresco triste e malinconico sulla complessità della vita, sulle sconfitte e sulle vittorie dell’essere umano, sul pugilato come metafora di ogni altra cosa.
Curiosità
Vidi questo film, per la prima volta, all’unico cinema di Procida, il mio amato Procida Hall. Era il 2004, il film era appena uscito.
Alla fine della pellicola, successe una cosa strana, unica, che non era mai successa prima e, a mia memoria, non sarebbe mai successa dopo: nessuno parlò, nessuno si alzò, nessuno andò via.
Rimanemmo tutti, per un minuto intero, in silenzio, a veder scorrere i titoli di coda. Senza dire una parola, senza versare una lacrima: muti. Fermi.
Questo film, come pochi altri, non trasmette quella tristezza immediata ed emotiva, che poi esplode nel pianto e si rimargina come una ferita.
Questo film deposita sul cuore una malinconia pesante e silenziosa, che resta a macerare per giorni, per mesi, e continua a lavorare nella coscienza, in silenzio, senza bisogno di parole.
Penso che un capolavoro, in ultima analisi, debba fare proprio questo: restare nella coscienza collettiva.
Far pensare, far riflettere.
E dopo un po’, perché no, fare anche piangere.
Diego Di Dio, © 2021