House of Cards
(Il potere per il potere)

House of Cards – Gli intrighi di potere è una serie statunitense – tratta dall’omonima serie britannica degli anni Novanta, a sua volta adattamento del romanzo di Michael Dobbs, ex capo di gabinetto di Margaret Thatcher – di sei stagioni, andate in onda su Netflix dal 2013 al 2018 (alcuni episodi portano la regia di David Fincher, che ne è stato anche uno dei produttori esecutivi).

Da notare che il sottotitolo italiano è, per me, di una banalità disarmante, mentre il titolo tradotto – Casa di carte – potrebbe indurre in confusione, data la somiglianza con La casa di carta (La casa de papel), serie famosissima e (sempre per me, ovviamente) sopravvalutata.

House of Cards ha avuto un immediato successo di pubblico e di critica: centro della storia è la scalata al potere del politico Frank Underwood (interpretato da un Kevin Spacey formidabile), personaggio contorto, spietato e contraddittorio, accompagnato e sostenuto da sua moglie Claire (Robin Wright, bravissima) e dal fidato consigliere Doug Stamper (Michael Kelly, anche lui impeccabile).

Frank è un protagonista cinico e arrivista ma, come detto, non è solo un anti-eroe. Personaggio complesso e machiavellico, sa essere dolce, accondiscendente, amorevole, ma anche crudele, disumano e implacabile. Il suo rapporto con l’algida moglie si basa su compromesso basato su una forma stranissima di complicità, di amore plasmato secondo le esigenze del caso: Frank e Claire mi hanno ricordato, per una metà, Diabolik ed Eva Kant. Come i due ladri creati dalle sorelle Giussani, anche loro si coalizzano e si sostengono a vicenda per l’unico obiettivo che conta: l’ascesa di Frank. Questo, però, non toglie spazio alla moglie: Claire e la sua ambizione ci vedono benissimo; non è un caso, infatti, che in molti episodi le aspirazioni di uno vadano a cozzare con quelle dell’altra.

Entrambi condividono un principio cardinale: tutto può essere sacrificabile per il successo; tutto è calcolo e tutto viene fatto per raggiungere un unico fine, la dominazione, l’egemonia, la conquista della poltrona più ambita.

House of Cards è una serie amorale e priva di scrupoli. Lo spettatore che voglia avvicinarsi deve lasciare a casa ogni forma di buonismo: Frank e Claire sono scorretti sotto tanti punti di vista (sul lavoro quanto nella vita privata); con se stessi, però, non lo sono. Come detto, ricordano solo in parte Diabolik ed Eva Kant. Per altra parte, infatti (e al contrario dei due ladri), il loro accordo contempla l’infedeltà, non come eccezione, ma come parte di un meccanismo più ampio. Si tradiscono a vicenda, marito e moglie, e si confidano con serenità amorevole le rispettive avventure extra-coniugali. Anzi, in alcune occasioni sarà proprio Frank a insistere affinché la moglie si senta libera di frequentare uno scrittore, loro amico comune.

In un certo senso è una serie che sembra lontanissima dalla realtà, tanto si spinge oltre. Ma si sa: per rendere al meglio un’idea, a volte, bisogna ragionare per paradossi.

Come tutti forse sappiamo, House of cards avrebbe dovuto articolarsi su sei stagioni incentrate sempre su Frank Underwood, ma le vicende personali che hanno visto coinvolto Kevin Spacey (le accuse di molestie) hanno scatenato un dietrofront da parte della produzione che, in un certo senso, è dovuta correre ai ripari. Le opzioni erano due: bloccare la serie o produrre l’ultima stagione senza il protagonista, cercando di giustificare in qualche modo la sua assenza. La soluzione prescelta è stata la seconda; l’ultima stagione assiste al passaggio del testimone: Claire prende in mano lo scettro del potere e il ruolo di prima donna, ma questa virata – già il finale della quinta stagione lasciava intuire un passaggio da Frank a Claire – è stata una soluzione obbligata, resa necessaria da problemi di natura giudiziaria. Il risultato è una stagione priva di mordente, una chiusa provvisoria e labile che assomiglia a un tappo di sughero usato per chiudere una falla gigantesca.

House of Cards resta una serie di altissimo livello, con un comparto attoriale selezionatissimo e affiatato. Benché la qualità delle prime stagioni sia indubbiamente superiore alle successive, la serie si è sempre mantenuta su un livello medio-alto, eccezion fatta per la stagione sei. L’assenza di Kevin Spacey ha pesato moltissimo sulla resa finale della storia, e ciò che resta è un profondo senso di mancanza e (forse?) ingiustizia, anche perché poi l’attore è stato scagionato da tutte le accuse.

© Diego Di Dio, 2024

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