Dogman
In una periferia che ha il sapore grigio dei muri scrostati, del mare che affanna in lontananza, delle porte sbeccate, DogMan è un uomo mite che ha due passioni: la figlia e i cani.
DogMan è un uomo buono, remissivo, educato.
Vorrebbe restare amico di tutti, ma non è possibile esserlo, dentro quelle periferie italiane che assomigliano più ad avamposti abbandonati che non a spazi urbani.Cimiteri eternamente in bilico tra degrado sociale e speranza di riqualificazione.
Simone è l’ombra gigante che si staglia su tutto il film, anche quando non si vede. Ex pugile, cocainomane e indistruttibile, semina il terrore, senza che nessuno possa fare niente per fermarlo.
Il rapporto tra Simone e Marcello è quello che di potrebbe avere tra un secondino e un detenuto, un corpo morto che si muove per inerzia e un corpo vivo che trascina l’altro dove gli serve.
Garrone, come sempre, ci parla di sconfitti.
E lo fa con quella dose di poesia nostalgica che rifiuta qualsiasi spettacolarizzazione della violenza.
Non ci sono musiche pompose, non ci sono climax, non ci sono finali al cardiopalma.
C’è le verità, nuda e schifosa.
C’è l’iperrealismo di una regia consapevole e raffinata, che confeziona una pellicola poetica, a tratti commovente, dribblando ogni possibile trucco del mestiere, ogni cliché, ogni soluzione pensata per il pubblico.
Perché la realtà, quella vera, non ce l’ha mai avuto, un pubblico.
© Diego Di Dio, 2018