Caduta libera
Black Mirror
S’intitola Caduta Libera.
È il primo episodio della terza stagione di Black Mirror.
In un mondo futuribile e vicinissimo a noi, le persone vengono classificate in base alla quantità di apprezzamenti (like) che riescono a ottenere sui social.
Tutto dipende da quello.
Persino il denaro viene sostituito dalla popolarità sociale: il tenore di una persona dipende dall’indice di gradimento che riesce a conseguire sui social media.
Tutto è asservito al compiacimento dell’altro.
Non si cucina per mangiare, ma per fotografare il cibo.
Non si sorride per allegria, ma per ricevere in cambio una valutazione positiva.
E il cibo fa schifo. E invece di sorridere di continuo, le persone avrebbero voglia di mandare l’altro a fanculo.
Ma non possono, perché il riconoscimento sociale, e le possibilità economiche e relazionali che ne conseguono, dipendono da quante stelline si riescono a ottenere dagli altri.
Si vive in un mondo patinato, fumoso, finto.
Ogni cosa è di plastica, probabilmente anche il sesso.
Si respira l’aria di plexiglas di una fabbrica di sorrisi posticci e relazioni costruite.
Una società talmente assuefatta alla finzione che dimentica persino se stessa: i personaggi indossano una maschera con tale abilità che, a un certo punto, dimenticano la faccia che c’era sotto.
Ma non tutti, ovviamente.
Ogni puntata di Black Mirror riesce a turbarmi.
D’altronde è questo lo scopo: Black Mirror è un dito puntato contro la società di oggi.
Ma il grido che ne erompe non è quello del moralismo facile o della rivolta dei complottismi da bar.
No.
La critica di Black Mirror è consapevole, rassegnata, quasi agonica. Loro lo sanno, e noi lo sappiamo: la società che viene dipinta non è ipotetica, non è possibile, non ha il sapore romantico della fantascienza.
La società che ne emerge è quella di oggi.
Attuale, viva, in continua evoluzione.
E tutti noi, in un modo o nell’altro, ne facciamo parte.
“Caduta Libera” non è il mio episodio preferito, ma mi ha turbato più degli altri, perché è talmente attuale e sincero che spaventa.
Per lavoro (e non solo) uso i social.
E sto scrivendo questa recensione sopra un social. D’altronde non ho mai parlato male dei social, perché li ho sempre concepiti come uno “strumento” per raggiungere un “fine”, che in alcuni casi è personale, in altri casi lavorativo.
Il problema, per me, nasce quando il social diventa il mezzo e il fine.
Quando assurge a scopo, invece che a strumento.
“Caduta Libera” ci dice che il processo è già in atto, ed è irreversibile.
E che un giorno non lontano regaleremo sorrisi al posto dei vaffanculo e fotograferemo un piatto immangiabile associandolo a tutti gli hashtag più in voga del momento.
E questa sarà l’unica cosa in grado di farci sentire vivi.
Diego Di Dio, © 2021